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LA PASCAREDDHRA TI NA FIATA

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Il giorno successivo alla Pasqua, detto comunemente Pasquetta, è chiamato anche lunedì di Pasqua.

Questa festività  “allunga” quella di Pasqua e prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro dell’Angelo con le donne giunte al sepolcro di Gesù. Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro, dove Gesù era stato sepolto, con degli olii aromatici per imbalsamare il suo corpo. Lì trovarono il masso, che chiudeva l’accesso alla tomba, spostato. Le donne erano confuse e preoccupate quando apparve loro un angelo, che annunciò la Resurrezione di Cristo e disse loro di avvertire gli Apostoli. 

L’espressione “lunedì dell’Angelo”, diffusa in Italia, è tradizionale e non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell’Ottava di Pasqua. Nel dopoguerra  il lunedì di Pasqua è stato introdotto dallo Stato italiano come festività civile.

Nel  Salento la Pasquetta si festeggia il giorno successivo alla Pasqua  ad eccezione della provincia di Lecce che festeggia “lu Riu” il martedì.

Nel passato i neretini trascorrevano “Pascareddhra” (la Pasquetta) all’aperto, in campagna. I meno abbienti si recavano “allu furnieddru” (costruzione rurale realizzata, con la tecnica del muro a secco, tipica del Salento, che era utilizzata come deposito per gli attrezzi, come riparo per i contadini che coltivavano le terre circostanti e come abitazione in estate), la media borghesia alla casa di villeggiatura nella vicina  campagna o nelle marine  e i nobili e i ricchi proprietari alla villa delle Cenate (località del comune di Nardò). Ognuno festeggiava a seconda delle proprie possibilità.  

Le  famiglie più fortunate invitavano parenti, compari, amici o vicini di casa. Il mezzo di trasporto più usato erano le proprie gambe. Si andava a piedi dal paese verso “lu furneddhru”. Si procedeva solitamente in gruppo. Durante il tragitto si chiacchierava o si  cantava. Questo alleviava la stanchezza e dava l’illusione di abbreviare il percorso. Nel passato erano poche le persone che possedevano una bicicletta, quasi sempre dotata di portabagagli. Su di esso veniva legata una cassetta di legno, in cui mettere la roba da trasportare. Sulla bicicletta si trasportava quasi sempre un’altra persona, a volte anche due.

Pedalare in quelle condizioni era molto faticoso. I più abbienti erano proprietari di “nu trainieddhru”(carretto) tirato da un cavallo o un asino. In questo caso lo spostamento era meno faticoso. Alcuni possedevano solo un asino o un mulo e lo utilizzavano per trasportare tutto quello che era necessario per la scampagnata. L’animale procedeva lentamente per il peso che aveva sul dorso e accanto gli camminavano il padrone e la sua famiglia. Nonostante la fatica tutto era fatto con buonumore e solidarietà. La mattina del lunedì di Pasquetta le donne si alzavano presto per preparare le pietanze e mettere insieme gli avanzi del giorno precedente che avrebbero consumato durante il pranzo. Tutto era avvolto in candidi strofinacci e deposto in un grande cesto o in una cassetta di legno.

Arrivati sul posto gli uomini si davano da fare per raccogliere “sarmente” (tralci di vite ricavati dalla rimonda delle vigne potate) e taccarieddhri” (piccoli ceppi) per accendere il fuoco. Le donne sradicavano le erbacce e, munite di ramazza, pulivano il luogo  in cui si sarebbe svolto il pranzo, di solito all’ombra di un grande albero. Alcune si dedicavano alla raccolta degli “unguli” (fave verdi) da gustare crudi con il pane casareccio e il formaggio. Le anziane del gruppo intrattenevano le bambine con i loro affascinanti ”cunti” e “culacchi” (racconti). I ragazzini si divertivano con vari giochi: “lampa lampa”, altalena, “mosca ceca”, “staccia”, “tuddhi”, “curru”, “surdatu ntustatu”,” basticalloi”, “menticalesse”, “piantallazzu”,  “tirammolla”, “mazzareddhre”, “cocozze”, “la cumeta “(l’aquilone) ecc. Il gioco più entusiasmante era quello dell’aquilone.

Il divertimento iniziava già nelle fasi della sua costruzione. I ragazzini realizzavano “la cumeta” con due canne incrociate, cordicelle e fogli di carta tenuti insieme da una poltiglia di farina e acqua. Ai lati e sulla coda attaccavano “li ricchini” (sottili strisce di carta che servivano a bilanciare l’aquilone). All’estremità legavano una lunga cordicella, che permetteva di governare l’aquilone.  Che gioia vederlo volare nel cielo! Le donne allestivano la tavola disponendo la tovaglia direttamente sull’erba, all’ombra di un ulivo vicino al “furnieddhru”. All’ora di pranzo grandi e piccoli si riunivano per consumare il cibo cotto al momento  e  quello  avanzato nel giorno precedente. La tavola neretina tornava ad essere ricca di  ricotta e formaggi freschi (la marzotica)  e stagionati (il pecorino) banditi, anche questi come la carne durante la Quaresima.

Le pietanze tipiche  erano la pasta al forno ( una pasta corta condita con sugo e ripiena di polpettine, salumi, uova e formaggi). La pasta era cotta  “cu fuecu sotta e fuecu sobra” (la teglia della pasta era posta sulla brace e chiusa con un coperchio su cui si disponeva altra brace). Si gustavano il polpettone (ripieno con salumi, formaggi e uova), le polpette al sugo e fritte, l’agnello al forno con le patate oppure al sugo o arrostito,  “li mboti” (involtini di interiora di agnello avvolti dalle budelline e  cotti alla brace),  la  frittata di uova insaporita con formaggio e  menta, la pitta, i carciofi pastellati e fritti, le uova lesse. Non poteva mancare un fiasco di vino.  La carne, a quel tempo, era un cibo che solo le persone facoltose potevano permettersi, a differenza della gente più povera, che poteva gustarla solo nei giorni di festa. 

Per questo motivo al contadino  sembrava che la tavola a Pasqua e Pasquetta fosse imbandita come quella di un re.

Le diverse pietanze, servite durante il pranzo, erano motivo di orgoglio per lui, che dopo aver mangiato  tanto pane duro e minestre di legumi o verdure poteva finalmente assaporare la carne! Infatti un proverbio neretino recita: ”A Pasca pane e carne”. I contadini, nel periodo pasquale, erano più  rilassati dopo la continua preoccupazione di non farcela con le provviste invernali perché  le condizioni agricole erano misere e nelle case si tendeva alla parsimonia, mangiando solo minestre e pane fatto in casa. Alla fine del pranzo si  gustavano i dolci tradizionali, in particolare la “palomba”, un dolce tradizionale che veniva preparato dalle donne, sia nella versione salata che in quella dolce, con al centro un uovo sodo, simbolo di vita nuova e altri tipici dolci pasquali come i quaresimali (biscotti con mandorle), “li pitteddhre”  (crostatine di pasta frolla a forma di stella ripiene di mostarda o  cotognata), “li scagliozzi” e  “li amaretti”. La “palomba” rappresentava l’abbondanza e la fertilità.

Nelle famiglie più abbienti era usanza preparare l’agnellino di pasta “di mendula” (pasta di mandorla), simbolo del sacrificio, dell’innocenza e della bontà di Gesù. Alle bambine veniva donata “la pupa”, preparata con pasta di pane o con pasta frolla che all’interno della  pancia conteneva un uovo sodo, simbolo di fertilità, di pace e di felicità domestica. “La pupa” decorata con zuccherini colorati e nastrini rossi, in segno di amore e di passione, era anche il dono del fidanzato alla fidanzata o del giovanotto che si voleva dichiarare alla futura sposa. Dopo il pranzo uomini e donne si concedevano momenti di svago: cantavano stornelli e, al suono di una fisarmonica o di un tamburello,  ballavano la pizzica, la mazurka, la polka….. Al tramonto tutti ritornavano al paese contenti per il giorno di festa appena trascorso e consapevoli del duro lavoro che li aspettava.

Mariella Adamo

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