Spettabile Redazione
scrivo questa lettera per raccontare ciò che io e la mia famiglia abbiamo vissuto non molto tempo fa all’interno di un reparto di terapia intensiva dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. Lo faccio con il cuore pesante e le mani tremanti, non per rancore, ma per bisogno di verità. Lo faccio affinché nessun’altra famiglia si trovi, un giorno, a vivere l’ultimo saluto a una persona cara con la stessa violenza emotiva e umiliazione che abbiamo subito noi.
Da ormai quasi due mesi a turno io, i miei fratelli e mia madre facevamo visita a mio padre ogni giorno. Quel giorno ci siamo recate in reparto io e mia madre. Le visite potevano iniziare alle 13:00, ma alle 13:10 la porta, stranamente, non si apriva e aspettavamo fuori insieme ad altri familiari. Nessun segnale, nessuna comunicazione. Il tempo passava, l’impazienza cresceva e dopo una lunga attesa finalmente iniziano a chiamarci. Entra mia madre ed io rimango in attesa di avere notizie (si poteva entrare uno alla volta). All’improvviso una voce squarcia il silenzio del corridoio:
<<Signora […], venga a prendere sua madre che non sta capendo che suo padre sta morendo!>>.
È così che ho scoperto che mio padre era in fin di vita. Nessuna telefonata, nessun preavviso (solo successivamente abbiamo saputo che mio padre era in fin di vita da diverse ore). Nessuna delicatezza. Solo una frase gridata con toni brutali.
Sono corsa verso la porta, ho intravisto mio padre dietro un separé, ho capito che qualcosa di irreparabile stava succedendo. E lì – travolta da un dolore immenso- ho avuto un attacco di panico. Non respiravo, tremavo, non riuscivo a parlare. Nessuno tra medici, infermieri e operatori si è avvicinato per chiedere se avessi bisogno di aiuto, tutti passavano davanti a me con indifferenza.
Per giunta, quando mia madre ha cercato aiuto ad un medico in arrivo, la risposta, rivolta a me, è stata fredda e tagliente: <<Signora, se ne vada a casa, non possiamo pensare pure a lei!>>.
Quelle parole mi rimbombano ancora dentro. Mio padre, nel frattempo, stava lottando tra la vita e la morte. Era palese che stesse faticando tantissimo a respirare. Era viola in volto, gli occhi semichiusi rivolti verso l’alto, la saturazione bassissima. Non scendo in altri dettagli dolorosi al ricordo. Nessuno ci aveva avvisati di un suo peggioramento. Soprattutto, nessuno in quel momento ha alzato un dito per provare ad intervenire, ad aiutarlo, quanto meno, a soffrire di meno!
Poi ci hanno fatto uscire fuori dalla sala. Non ci è stato concesso neppure di stargli accanto nel suo ultimo momento di vita. Per giunta un’infermiera ci ha chiesto se volessimo portarlo a casa o lasciarlo morire in reparto da solo (sottolineo queste parole “da solo” per rimarcare come – anche in questo caso – volevano portarci ad una scelta instaurando in noi un senso di colpa e un giudizio proprio su una decisione strettamente intima e personale).
Un nostro parente, nel frattempo, aveva chiamato un’ambulanza per tenerla pronta per un eventuale trasferimento a casa, ma quando i barellieri sono arrivati, il medico di turno (lo stesso che disse a mia madre: “se ne vada a casa […]”) si è scagliato verbalmente urlando contro di loro, dandoli degli incompetenti e minacciando di chiamare i carabinieri… mi chiedo: pensava che si sarebbero portati
il corpo di mio padre “rubandolo” dal reparto? (cosa ovviamente impossibile) oppure voleva affermare ancora una volta la sua “onnipotenza” e arroganza?
In preda al dolore, infastidita dalla scena a cui avevo appena assistito, ho chiesto scusa al personale dell’ambulanza per il trattamento ricevuto (anche se non sarei dovuta essere io a farlo). I barellieri mi hanno risposto con una dignità silenziosa e non chiedendo nulla in cambio sono rientrati in sede.
Com’è possibile che in un ospedale pubblico dove si tiene la Giornata Mondiale per la Salute Mentale sia impiegato del personale sanitario che, non solo non sembra professionalmente preparato ad affrontare le situazioni emotivamente critiche, ma manchi anche di sensibilità ed educazione? No, i medici non sono tutti uguali, ma quello che abbiamo vissuto in prima persona è stata la totale assenza di empatia verso il malato e verso i familiari del malato.
Come si può sperare in un processo di guarigione del malato già provato fisicamente e mentalmente dalle terapie farmacologiche, dagli interventi e dalla lontananza dei propri cari, senza la sensibilità e l’empatia del personale sanitario che gli ruota attorno?
I primi giorni in terapia intensiva, prima che andasse via via peggiorando (senza che noi familiari sapessimo la motivazione di tale peggioramento, e di cui siamo ignari tuttora), mio padre era lucido, consapevole, ascoltava ogni parola. Come può un medico parlare, senza tatto, davanti al letto di un malato e dire ai familiari: <<Così è, così resterà. Non c’è speranza>>, senza preoccuparsi dell’impatto emotivo che ciò avrebbe su di lui? Come può il malato – che si trova immobile nel letto, attaccato alle macchine, che non riesce ad esprimere la sua sofferenza – lottare o aggrapparsi ad una speranza, ad una motivazione per andare avanti, sentendo queste parole brutali?
In reparto abbiamo incontrato anche del personale sanitario capace, gentile e umano, ma troppo spesso la mancanza di empatia, la freddezza e l’insensibilità nella cura hanno preso il sopravvento. Mi domando perché le figure professionali che ricevono qualifiche d’eccellenza non vengano valutate a 360 gradi. Si parla tanto dell’importanza di accompagnare le terapie farmacologiche alle terapie “non farmacologiche”, dell’importanza dell’aspetto psicologico nel processo di guarigione e poi sono loro stessi che con questi comportamenti fanno fallire i protocolli di cura non calcolando quanto sia importante questa variabile.
Come può il personale sanitario ignorare che la percentuale di guarigione, se accompagnata dall’umanizzazione nelle cure, aumenterebbe drasticamente? Come possono medici ed infermieri pensare di essere dei meri esecutori di protocolli che perdono la loro efficacia nel tralasciare l’aspetto psicologico della persona? Come possono essere soddisfatti del loro lavoro se lo hanno svolto meccanicamente e, in una giornata lavorativa, non sono riusciti a dare una carezza o una parola di conforto, una speranza?
Ci tengo a sottolineare, che tutti noi familiari, abbiamo mantenuto costantemente (in ogni minuto in reparto) un comportamento educato, dignitoso, umile e rispettoso. Quindi niente poteva giustificare il loro comportamento. Ammesso e concesso che si possa giustificare. Al di là del comportamento tenuto dal personale sanitario, parecchio ancora ci sarebbe da dire […]
Mio padre era una persona colta, razionale, ha superato le più ardue e impensabili battaglie nella vita e non ne aveva persa nemmeno una. Sono certa che avrebbe vinto anche questa – o quanto meno avrebbe provato a lottare con tutte le sue forze – se solo lo avessero considerato come persona
pensante, con la sua dignità, con i suoi sentimenti e con la lucidità che ha conservato fino all’ultimo
respiro.
Nessuno mi darà indietro mio padre, ma è inaccettabile che questo sistema vada avanti, mascherato da false apparenze, da organizzazioni di campagne di sensibilizzazione in cui i primi a partecipare e a farsi un esame di coscienza dovrebbero essere gli stessi medici, infermieri ed operatori socio sanitari che hanno perso – o non hanno mai avuto – la vocazione vera a svolgere questo difficile lavoro.
Ho scritto questa lettera tralasciando di raccontare tutto il resto dell’esperienza negativa che abbiamo vissuto in quasi due mesi al V. Fazzi. Questa lettera è solo una piccola parte della storia dell’inferno che abbiamo vissuto. Una lettera non basterebbe per raccontare tutto. Tuttavia, la scrivo perché credo che ci sia una differenza fondamentale tra “curare” e “prendersi cura” ed è anche da questo filo sottile che dipende la sopravvivenza di chi si affida nelle loro mani… e quel giorno, in quel reparto, nessuno si è preso cura di lui. Né di noi.
Scrivo per dare voce a mio padre, a tutte le persone che non possono più parlare ed ai loro cari.
Invito altre persone a fare lo stesso, se hanno vissuto esperienze simili, nella speranza di un risveglio di coscienze.
Firmato L.R.





























