Componimento a cura di Federica Marzano.
La mamma mi faceva assistere alle processioni del paese,
andare a messa la domenica, anche se una volta uscito da lì non avrei saputo cosa rispondere se mi avessero chiesto di spiegare i discorsi del prete
e andare al catechismo, che era di sabato. Leggevamo alcuni passi del libro che i genitori avevano acquistato e che tutti noi bambini portavamo in una cartelletta di plastica assieme al quaderno che serviva per eventuali compiti in classe o da fare a casa.
Sono sincero, mi scocciava andarci. Però mia madre non ne teneva conto. Avrei preferito giocare. Amavo giocare.
Quando poi ho smesso di giocare ho iniziato a giocare a pensare. Per me è di vitale importanza ripensare alle situazioni che vivo (soprattutto se ad alto
contenuto emozionale), riflettere, farmi un’idea, formulare opinioni, pensare a
ciò che devo fare e immaginare. Quante cose s’immaginano.
Da adulto ho fatto della mia interiorità la mia religione.
Alcune volte mi prego, altre mi venero oppure mi odio, altre ancora m’incazzo e penso che potrei usare la mia divinità per portarmi una luce nuova ogni giorno e impegnarmi di più a superare i miei vizi. Io sono pieno di vizi.
Ce ne ho messo di tempo sai? Non è facile scendere giù negli abissi. Ne ero terrorizzato. E siccome non ero tanto bravo a nuotare rimanevo a mezza
profondità così potevo dare un’occhiata sul fondo e allo stesso tempo se usciva
un mostro potevo risalire in superficie e andare sulla sabbia senza troppi
problemi. Poi ha cominciato a stufarmi pure quella. La sabbia non è pulita. E’
sporca. E io odio lo sporco.
Un giorno mi sono addentrato più del solito. Ero curioso. Sono una persona curiosa. Ho dato un colpo di pinne e sono sceso. Quando ho visto quel mostro mi sono spaventato e sono scappato.
La mia vita è talmente magica che io stesso credo di avere i poteri magici.
Per esempio, a volte poggio le cose e le ritrovo da tutt’altra parte.
Oppure cambio i giorni della settimana. Se oggi mi convinco che è lunedì faccio le cose del lunedì e rimane lunedì. Anche se mia moglie dice che è mercoledì le dico: no amore, ho cambiato le cose con la bacchetta magica.
Qualche volta mi distraggo. Un giorno ho fatto un incidente con la macchina, ma quel mercoledì non sarei dovuto uscire, solo che avevo cambiato giorno. E allora ho pensato: accidenti a momenti mi ammazzava questa magia!
Vanno usati con parsimonia i filamenti magici. Come il danaro. Ogni tanto me ne dimenticavo e mi prendevo i vizi. Mio fratello Alfredo me lo diceva sempre, che ero un coglione. Secondo me era geloso perché a trent’anni aveva già perso tutti i capelli mentre io avevo una zazzera da fare invidia ai cugini di campagna.
Però da ragazzino ero io invidioso di lui perché era più grande e poteva uscire a divertirsi. A me toccavano le ripetizioni di Storia del signor Donato un giorno sì e un giorno no. Io preferivo quelli no perché se lui non veniva andavo dalla nonna che mi preparava sempre il pane con burro e marmellata. Poi perché il signor Donato non mi era molto simpatico. Un giorno disse una cosa strana che non mi piacque: <<secondo me soffri di depressione>>. Me l’ero presa come quando mio fratello mi dava del coglione. Mi ero difeso dicendo che non era vero, che si sbagliava.
Quella notte non riuscii a dormire. E se era quello il grande mostro che mi aveva spaventato negli abissi quella volta?
Il brutto di quando sei piccolo è che non puoi prendere le tue decisioni. Motivo per cui quando vedevo bambini più piccoli di me ci tenevo a scegliere io i giochi da fare perché “sono il più grande”. Avevo acquisito questa frase dagli adulti della mia famiglia. Mi dicevano sempre che Alfredo era grande e poteva.
Ci ho sofferto sai? Volevo essere libero. Me ne andavo sul tetto e guardavo gli
uccelli volare. Mi ripetevo che un giorno avrei volato anch’io come loro.
Non avevo dubbi sul mestiere che avrei fatto: il pilota aereo.
Non ero un bullo. Ero un buono. Un fesso. Alla gente non piacciono i fessi. Poi non avevo le caratteristiche per essere bullo perché ero piccolo e mingherlino. In altre parole potevo essere messo al tappeto con un soffio di vento.
E secondo te i bulli si lasciavano sfuggire l’occasione?
Una volta mi fecero lo sgambetto mentre passavo. Caddi come un sacco di patate.
Il giorno seguente invece la fecero grossa: mi rubarono la merenda fatta da mia nonna. Non dovevano. Ci aveva messo il salame e io adoravo il salame.
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la gomma da masticare che mi appiccicarono ai capelli. Che schifo. Mia madre dovette tagliarmi un intero ciuffo e così sembravo uno che era appena stato investito.
Avevo deciso che mi sarei difeso: la merenda l’avevo nascosta nella doppia tasca, mentre in una busta ce n’era una finta che consisteva in lucertole e vermi avvolti nella carta stagnola. Avrebbero avuto di che sfamarsi in abbondanza invece io avrei guastato il panino col salame.
La ciambella non uscì col buco però. I bulli non c’erano e il mio zaino era diventato una landa non desolata ricca di lombrichi e piccoli rettili. Quel pomeriggio giocai con loro.
Una mattina presi un’importante decisione: avrei mangiato di più così sarei diventato grande e grosso come Ivan, quello che mi aveva appiccicato la gomma da masticare.
Dopo aver mangiato tre panini, una bistecca al sangue e l’insalata di pomodori ebbi una reazione strana al bagno. Avevo mal di pancia e mi sentivo tutto gonfio.
Forse non era un buon metodo. Però mi era venuta un’idea più furba. Mi sarei fatto accompagnare da mio fratello. Quando glielo chiesi mi rispose di sgommare perché aveva così tanto da fare che non bastava un esercito di leoni robot per portare tutto a termine.
Per me lui era uno tosto. Non era un pappamolle come me. Era come una figura paterna perché in effetti portava lui la pagnotta a casa. Mio padre faceva e non faceva.
Da ragazzo feci una promessa a me stesso: sarei stato un padre migliore di lui.
Dopo alcuni anni Alfredo era al militare e tornava per le vacanze con la sua divisa.
Era come ritrovare uno sconosciuto che però conosci. Vestito così incuteva un certo timore ma anche un senso di sicurezza, protezione e rispetto. Mio padre gli chiedeva sempre se fosse sotto l’influenza di qualche sergente Hartman perché era stato abituato al rigore sin da piccolo e conosceva solo la linea dura.
<<Sì signore!>>, rispondeva mio fratello, con l’aria fiera. Il viso di papà si
riempiva d’orgoglio. Finì per diventare maresciallo. Io uno spiantato. Subivo il paragone con lui da mia madre. Quando il maresciallo doveva rientrare a casa gli faceva trovare cibo di qualità accuratamente selezionato al mercato, dopo un giro completo di tutte le bancarelle che puntualmente mi costringeva a fare insieme a lei. Uova, latticini, carne, il tutto condito dal “brodo di giuggiole”.
Buon appetito.
Di buon mattino mi diceva la solita frase: <<vestiti bene caro, fra poco arriva tuo fratello>>. Io restavo nella mia canotta, accendevo una sigaretta, uscivo di casa e salivo sul motorino di Ronzino.
Si andava a trovare altri bischeri nei postacci, in cui giocavamo d’azzardo fino a
scommetterci le mutande.
Poi tornavo a casa alticcio e trovavo i miei a tavola con mio fratello e i nonni. Prendevo mio fratello da parte e gli dicevo che avevo perso dei soldi.
<<Quand’è che la smetterai? Un giorno di questi farai morire la mamma di
crepacuore!>>.
Lo prendevo per il bavero con veemenza: <<Ascolta maresciallo delle mie palle quand’è che la finirai di giudicare? Mettiti questi ridicoli vestiti e vai a puttane. Io cerco di guadagnare qualche spicciolo e come tutti gli investimenti un giorno va bene e l’altro va male. Che cazzo! Ci stai tu a casa con quell’idiota di tuo padre e la mamma che non fa altro che dire che dovrei seguire il tuo esempio? Sono stufo! Ci sto provando dannazione!>>.
Ero una testa calda. Lui mi voleva bene e finiva per risanare i miei debiti.
Un giorno tornai a casa massacrato. Sistemato per le feste. Mi avevano portato sottobraccio i due scagnozzi che mi avevano ridotto così. Erano i gorilla di un tizio a cui dovevo dei soldi. Mi aspettava più in là con lo sguardo minaccioso, gli occhiali da sole, il sigaro e i capelli leccati da una vacca nella sua Cadillac del
’75. Sapevo che teneva in pugno una pistola.
Gestiva delle baldracche alle quali mi ero permesso di offrire da bere senza il suo consenso e prima ancora avevo perso a poker contro altri energumeni amici suoi.
Era anche il periodo in cui uscivo ogni sera con una tipa diversa. Un altro vizio che mi ero caricato. Andavo forte con i capelli gelatinati sulle spalle, gli orecchini e le canotte che mettevano in risalto i miei muscoli. Mi allenavo in una vecchia palestra malconcia con gli amici.
Comunque nel gruppo c’era una brunetta che mi aveva colpito: Lucy.
Una sera eravamo ad una festa e lei era seduta per conto suo, mentre la tipa che frequentavo, Cassandra, era in pista con gli altri. Mi ero avvicinato chiedendole se volesse ballare. Mi rispose che ero impegnato e allora incalzai:
<<e se mi disimpegno?>> con quella faccia di bronzo che mai m’era mancata. L’avevo conquistata e lei aveva conquistato me con il sorriso, che mi fece innamorare per la prima e unica volta.
La sera in cui mi avevano gonfiato mio fratello risanò i miei debiti e mia madre si prese cura delle mie ferite. Mio padre brontolava come sempre ma di concreto non fece nulla. Mi sarei stupito del contrario.
Appena stetti meglio il maresciallo mi mise con le spalle al muro e mi mollò un ceffone così forte da rimbombare per tutta la casa. <<Adesso farai come ti dico. Verrai in città con me e ti dedicherai allo studio. Intanto lavorerai per me come autista. Sarai retribuito regolarmente e i soldi li spenderai per pagarti gli studi e da mangiare. Adesso basta cazzate. Non pagherò più i tuoi debiti. E’ un cazzo di ordine!>>.
Non dissi una parola. Andai a fare le valige. Partimmo l’indomani.
La mia Lucy non riuscii a salutarla, ma le mandai una cartolina al più presto.
Tornavo quando potevo. Andavo da lei tutte le volte a chiederle se mi stesse aspettando. Una volta mi chiese cosa avessi da offrirle. <<Ti offro me stesso>>. Anche perché non avevo altro. Ero spiantato. Mio fratello i soldi me li contava tutti i giorni e non potevo sgarrare. Mi erano state concesse solo una stecca di sigarette e una pinta al mese. Poteva andarmi peggio. Le mie giornate erano piene di lavoro e di studio. Le vecchie amicizie non le vidi più. Mai più. Alcuni diventarono loschi individui alle dipendenze dei boss della mafia locale. Altri si fecero beccare con le mani nel sacco.
Terminati gli studi Lucy venne via con me. L’amavo. Lei mi amava. Io non mi amavo. Volevo essere tutti all’infuori di me. <<Come fai ad amare un casinaro come me?>> le dicevo.
Mi portavo dietro troppe sofferenze, troppi dissapori, troppe dannazioni.
Avevo l’anima tormentata e i recessi della mia mente non mi facevano dormire
la notte.
<<Amo il tuo cuore. Amo il tuo buon cuore>>, lei rispondeva. Perché in fondo ero rimasto il buono che ero da piccolo. La trattavo come la mia principessa.
Non c’erano braccia migliori delle sue per riposare.
Abbiamo condiviso una vita meravigliosa. Mi seguiva ovunque andassi perché poi, pilota, lo sono diventato veramente, realizzando quel sogno di libertà che in tempi immemori era parso tanto lontano quanto irraggiungibile.
Ci siamo spostati a Nord, poi in Texas e abbiamo vissuto cinque anni in Africa.
Lei cresceva i nostri tre figli maschi.
Quei ragazzini scorrazzavano allegri per l’aia e la loro madre li rincorreva con un cappello da cowboy sul capo. Per quel poco che li vedevo pensavo: chissà perché ci è venuto in mente di fare un branco di scimmiette urlatrici. Ne bastava uno a portare avanti la stirpe. Non stavano mai fermi.
A me non cambiava poi molto, ma mia moglie arrivava a fine giornata con le gambe pesanti.
La guardavo e pensavo a quei periodi da spiantato. Non avevo una lira e mi facevo di vizi e mi sono convinto di una cosa: certe volte l’uomo ha bisogno di drogarsi per restare lucido.
Il vizio delle donne dovevo togliermelo come quello dell’alcool, del gioco e delle sigarette. Tre scelte avevo: diventare frocio, trasformarmi in un paguro bernardo e fare l’eremita per il resto della mia vita oppure innamorarmi. E mi sono innamorato.
Ho sempre avuto dentro di me un uomo vecchio cent’anni. Le portavo i fiori, le dedicavo canzoni. La facevo volteggiare e finivamo a ballare per la stanza come due matti.
Il coraggio lo imparai dai gatti. Ma come, mi rispondi, non erano i leoni quelli coraggiosi? C’hai ragione. Ma io non ho mai avuto a che fare con i leoni. Meno male. Sarei stato sbranato prima ancora di potermela fare nei pantaloni.
Un giorno decisi di prendere un gatto. Era molto fifone. Appena lo misi in casa scappò sotto al letto e non voleva uscire. Nemmeno per mangiare. I primi
giorni dovetti mettergli cibo e acqua lì dov’era lui. Poi una volta lo attirai fuori dal letto e a poco a poco fuori dalla stanza, con una corda. Non resisté alla tentazione. Appena fu fuori chiusi la porta dietro di lui che, tutto impaurito, non ebbe più scuse. Gli toccò guardarsi intorno e prendere confidenza con
l’ambiente circostante. E con me. Nel giro di una settimana divenne la mia ombra. Allora non ci pensai alla lezione, ma mi si palesò davanti agli occhi quando ebbi a che fare con una cucciolata di gatti. Erano spuntati nel mio giardino. Come i nani. Solo che questi non stavano mai immobili come le statue. Tranne uno. Si isolava, era timido. Non mi veniva incontro come gli altri e non provava a salirmi sopra. Era sempre da tutt’altra parte. Lo presi in simpatia più degli altri. Non osavo disturbarlo, ma un bel giorno gli dissi sai che
c’è, amico mio? Adesso io e te ci presentiamo. Lo presi tra le mani. Tremava. Ma non mi arresi e col solito metodo della corda lo feci giocare. All’inizio restio poi si lasciò andare. Da quel giorno mi venne incontro come tutti gli altri e fu più partecipe alle mie visite quotidiane in giardino. Un cucciolo che ti insegna che il coraggio sta al di là delle nostre paure.
Un giorno di maggio appresi delle lezioni che mi resero l’uomo che sono. Per prima cosa, a volte devi venire a patti con te stesso. Comprendere che avrai ragione quando imparerai ad avere torto. Non c’è modo di fermare
l’inquietudine finché non ci lasciamo assorbire da questa. Fin quando non trovi la tua ricetta dell’amore, non devi scendere a compromessi. Oggi devi amarti più di ieri. Gli sbagli non definiscono chi sarai domani. Dì sempre la tua.
Talvolta ci sentiamo felici anche quando non lo siamo veramente, perché
cerchiamo tanto affannosamente la felicità da accontentarci dell’illusione.
La cura definitiva contro la masturbazione del cervello è comprendere che non esiste.
Poi sono giunto alla conclusione che gli eventi avversi non ti migliorano un cazzo.
Oggi sono in pace con me stesso.
Lucy continua ad essere la mia regina e i nostri figli il mio orgoglio.
Tutti i giorni prendo la mia sedia ed esco in giardino. Mi siedo vicino al vecchio cedro che conserva sotto di esso le spoglie di mia moglie, lo stesso sotto cui
d’estate si rifugiava a leggere. Adesso lo faccio io, così può continuare ad
ascoltare storie e io a parlare con lei.